giovedì 2 febbraio 2017

ELEVATOR GAME.

ELEVATOR GAME
Questa leggenda di origine Coreana narra di un gioco che, se eseguito nel modo corretto, consente di
entrare in un’altra dimensione.
L’ascensore deve avere almeno 10 piani, il giocatore senza avere accompagnatori iniziando dal piano Terra
deve selezionare il 2^ piano e successivamente in questo ordine il 4^ - 6^ e 10^ piano , in tutti i passaggi
che vengono svolti il giocatore NON DEVE MAI USCIRE dall’abitacolo. Arrivato al 10^ piano si deve selezionare il 5^ piano dove, dopo qualche istante di attesa, entrerà una giovane donna dai capelli biondi
ALLA QUALE E’ PROIBITO RIVOLGERE PAROLA. L’ultimo passaggio consiste nel premere il pulsante del
piano terra, l’ascensore invece che scendere inizierà a salire misteriosamente.
Molti testimoniano di non essere più gli stessi dopo il gioco e che la ragazza del fatidico 5^ piano non sia
reale ma un’ invenzione dell’inconscio...meglio andare a piedi.


sabato 21 gennaio 2017

La Bestia NON si ferma.

Paura. Il suo odore è ovunque. Solo il sangue riesce a coprirlo, creando a tratti un miscuglio acre e pungente.
Inspiro. Il dolce odore del plasma mi riempie le narici. Delizioso.
Sento caldo. Il pavimento si sta riempiendo di sangue. Mi abbasso. Assaggio la rossa pozza che sta formandosi. Chiudo gli occhi per assaporare il momento. Estasi pura.
Non vi sono suoni, eccetto il sangue che sgocciola sul pavimento in metallo. Non sento gorgoglii? Che sia già morto? Riapro gli occhi.
Nel punto da cui origina la pozza, vi è il cadavere di un uomo: è (o meglio era) un uomo robusto, con braccia forti ed un torace ampio; aveva anche un viso attraente, anche se ora è paralizzato in un’espressione di terrore, mentre con una mano tenta di coprirsi la giugulare.
Mi avvicino. Alle volte fingono di essere morti, sperando di scappare quando mi addormento. Qualche volta li lascio fare, per poi saltargli ancora addosso appena pensano di essere al sicuro. 
Gli sono davanti. Osservo ancora il sua viso. Che fosse un modello? Chissà come l’hanno convinto a venire qui. Avranno fatto leva sulla sua vanità? Che importa, purtroppo è già morto. Peccato, avrei voluto divertirmi di più.

THANATOMORPHOSE - E.Falardeau, 2012


Laura si è da poco trasferita in un nuovo appartamento. Conduce una vita spenta, priva di stimoli, ed ha un fidanzato scontroso e poco devoto. Una mattina si sveglia con delle ecchimosi comparse inspiegabilmente sul corpo. Da quel giorno in poi inizieranno a manifestarsi tutti i sintomi di una prematura putrefazione: unghie che si staccano, pelle che marcisce, ossa che si rompono. Di fronte alla consapevolezza dell’imminente fine, la giovane si abbandonerà alla sua sorte.

Esordio alla regia per il canadese Eric Falardeau, che sforna un’opera dal sapore undergound unica nel suo genere. La pellicola, distribuita dalla prolifica Black Lava Entertainment,  ha visto la luce dopo un travagliato percorso fatto di studi e ricerche nel campo della decomposizione fisica: il regista si è infatti laureato in “film studies” presentando una tesi sui fluidi corporei nel cinema gore e porno (!!!) Tutto il “sapere teorico” di Falardeau viene riversato in questo film, forte visivamente ma estraneo dal concetto di pornografia dell’orrore fine a sé stessa: il processo biologico viene infatti mostrato come metafora e specchio riflesso di un’esistenza vuota e rassegnata al proprio destino. L’opera è suddivisa in tre capitoli (“despair”, “another” e “oneself”), struttura che rimanda a “Sygdommen til Døden” (“La Malattia Mortale”) del filosofo Søren Kierkegaard, un saggio che, attraverso l’approccio psicologico, tratta il tema della malattia e della disperazione intese come facce della stessa medaglia.  Ed è proprio la morte il fulcro del film, o per meglio dire il disfacimento del corpo come atto conclusivo di un annichilimento mentale e spirituale. “Thanatomorphose”  è volutamente privo di un intreccio narrativo e racconta quel poco che basta sulla vita della protagonista e sul suo rapporto non proprio idilliaco con il fidanzato, dipinto come una figura insensibile e burbera. Eccellente l’interpretazione di Kayden Rose la quale si è dovuta sottoporre ad ore e ore di trucco: ottimo il lavoro prostatico e di make up, reso ancora più realistico da una fotografia sempre equilibrata. Il regista canadese sfrutta un linguaggio cinematografico non convenzionale,
che risulta a tratti ostico ma che riesce a trascinare lo spettatore in un vortice di angoscia e alienazione, facendogli quasi percepire attraverso lo schermo l’odore nauseabondo della decomposizione. Ogni singolo dettaglio riflette il dramma interiore ed esteriore di Laura: sequenze dilatate e ritmi lenti accentuano l’atmosfera opprimente, ulteriormente esasperata da un’ambientazione  spoglia e scialba (la casa, unica location del film), la quale riporta inevitabilmente alla mente Jorg Buttgereit, dal quale Falardeau  ha ripreso anche lo stile registico, sempre attento e raffinato. La mutazione della ragazza – che non lascia il minimo spazio all’immaginazione – viene accompagnata dal sottofondo musicale Guild of Funerary Violins: una marcia solenne, mesta e romantica che esalta l’estetica del film sviscerando lo spettro di emozioni legate al lutto e alla morte. Ossessivo l’elemento sessuale, concepito probabilmente come unico ponte di collegamento con la vita: di fronte ad una crepa sul muro che ricorda le parti intime femminili, Laura non rinuncerà ad abbandonarsi al piacere carnale in solitaria, ed anche quando il suo corpo cadrà letteralmente a pezzi, concederà una disperata fellatio ad un suo (ex) ammiratore, il quale si ritroverà di fronte ad una scena surreale, dove sperma, vermi e liquidi corporei si mischiano in una danza putrescente.  In questa inesorabile discesa negli inferi, tra materiale organico in decomposizione e scricchiolio di ossa che si rompono, non c’è spazio per la speranza, non c’è spazio per la lotta, esiste solo la consapevolezza della fine. Una consapevolezza reale, tangibile, con cui ognuno di noi potrebbe ritrovarsi a fare i conti. Ed è questo, forse, il vero orrore.